Le foto dei beni culturali a pagamento anche per i ricercatori

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Sono state pubblicate, in base al D.M. 161 dell’11/04/2023, le Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali comprendenti le tabelle necessarie per stabilire i criteri dei tariffari. L’intento del Decreto Ministeriale 161 appare principalmente quello di incrementare il gettito, in maniera coerente con le ultime linee di indirizzo del Ministero, con l’aumento del costo dei biglietti dei musei o con l’imposizione del biglietto di ingresso alla chiesa del Pantheon, monumento-simbolo di Roma. Si pagherà anche per le pubblicazioni scientifiche. Clamoroso il trattamento riservato all’open access che non essendo neanche citato viene tacitamente classificato tra le attività a scopo di lucro, in flagrante violazione dello stesso Codice dei Beni Culturali.

Sono state pubblicate, in base al D.M. 161 dell’11/04/2023, le Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali comprendenti le tabelle necessarie per stabilire i criteri dei tariffari.

Diciamo subito che in una valutazione complessiva si tratta di uno straordinario quanto sorprendente passo indietro rispetto alle Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale elaborate meno di un anno fa dall’Istituto Centrale per la Digitalizzazione del Patrimonio Culturale – Digital Library (un istituto, si badi bene, sempre dello stesso Ministero). Queste ultime linee guida si inquadravano nel Piano Nazionale di Digitalizzazione del patrimonio culturale, ma purtroppo non sfociarono mai in un DM. Nella premessa alle nuove tabelle si dichiara espressamente di aver tenuto conto di questo documento, ma non è chiaro in che modo, atteso che esso viene puntualmente smentito in numerosi degli indirizzi principali.

L’intento del Decreto Ministeriale 161 appare principalmente quello di incrementare il gettito, in maniera coerente con le ultime linee di indirizzo del Ministero, con l’aumento del costo dei biglietti dei musei o con l’imposizione del biglietto di ingresso alla chiesa del Pantheon, monumento-simbolo di Roma. Il DM non sembra aver valutato se le sue ricadute incentivino la fruizione del patrimonio culturale (che è il primo compito del Ministero), né se portino reali vantaggi economici alla Pubblica Amministrazione, tanto meno considera quali siano gli effetti sui comparti che dipendono più o meno fortemente dall’uso delle immagini dei beni culturali, quali editoria, mostre, ricerca scientifica etc.

Le linee guida dell’Istituto Centrale per la Digitalizzazione, al contrario, avevano ben chiarito diversi punti: per esempio che “nella determinazione dei corrispettivi il totale delle entrate provenienti dalla fornitura e dall’autorizzazione al riutilizzo dei documenti in un esercizio contabile non potrà superare i costi marginali del servizio reso, comprendenti i costi di raccolta, produzione, riproduzione, diffusione, archiviazione dei dati, conservazione e gestione dei diritti …, maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti.”

Inoltre, le stesse linee guida ricordavano che “la definizione dei corrispettivi non può avere valore esclusivamente amministrativo-contabile, in quanto deve necessariamente rapportarsi con le politiche culturali dei singoli istituti nei confronti dell’utenza: complesse procedure autorizzatorie e alti corrispettivi potrebbero infatti avere l’effetto di limitare, scoraggiare, o peggio discriminare, l’accesso al patrimonio culturale. Al contrario, la promozione del riuso delle risorse digitali, semplificando le procedure connesse, rappresenta una componente rilevante su cui fondare la reputazione, la credibilità e l’attrattività in rete di un’istituzione, fattori essenziali per assicurare, sul lungo termine, il reperimento di risorse economiche.” Osservavano anche che, “poiché in molti casi il costo amministrativo per la gestione del servizio supera di gran lunga le entrate derivanti dai corrispettivi, l’eventuale sbilanciamento negativo che dovesse generarsi non potrà in ogni caso essere messo a carico dell’utente aumentando l’entità del corrispettivo.”

L’Istituto per la Digitalizzazione in conclusione riconosceva “la necessità di delineare prassi il più possibile uniformi e semplificate per gli usi editoriali delle riproduzioni dei beni culturali, prevedendo, in linea generale, la gratuità per qualsiasi tipo di pubblicazione editoriale in forma di monografia, rivista o periodico sia in formato cartaceo sia digitale, da chiunque proveniente e per qualsiasi supporto. Ciò consentirà di agevolare in primis la divulgazione della ricerca scientifica e la valorizzazione del patrimonio culturale, come esplicitamente previsto dal Codice, ma più in generale di promuovere il sistema editoriale, già frequentemente oggetto di contributi e forme di sostegno economico da parte del governo, anche in considerazione dei limitati margini di ricavi per autori ed editori di pubblicazioni riproducenti beni culturali.”

Per farla breve, il nuovo DM si pone in radicale alternativa alla linea dell’Istituto per la Digitalizzazione e non tenta di dar ragione di questa conversione a U, che appare più di natura ideologica che legata a un’analisi dei costi/benefici, manifesta una concezione contabile ristretta, che non considera i Beni Culturali nella loro specifica funzione civica e sociale, e deriva da un’idea arcaica dell’editoria.

Chiarito il quadro, entriamo nel dettaglio: innanzitutto il meccanismo di calcolo è di grande complessità (tutto il contrario delle auspicate “prassi il più possibile uniformi e semplificate”) cosicché è facile profezia prevedere che verrà applicato in maniera fortemente difforme nelle varie amministrazioni interessate, anche perché le lascia libere di richiedere il pagamento di tariffe superiori ai costi “minimi” previsti.

Inizialmente il DM distingue tra le riproduzioni con o senza scopo di lucro. Per quelle senza scopo di lucro è previsto solo il rimborso delle spese vive elencate alla tabella 3. Non è chiaro come vengano quantificate tali spese: per esempio il costo delle immagini digitali viene distinto tra quelle in bianco e nero e quelle a colori dove le ultime costano di più, ma non si capisce su quali basi. Ormai tutte le riprese digitali vengono eseguite a colori e sono quelle in bianco e nero che semmai hanno bisogno di un’elaborazione informatica ulteriore che elimini il colore. Ancor meno comprensibile è il costo delle stampe, che è inferiore a quello delle immagini digitali pur richiedendo un lavoro maggiore, nonché l’invio per posta, il che vale anche per le fotocopie.

Il problema più grave però emerge dalle tabelle successive, relative alle riproduzioni a scopo di lucro: in questo caso il costo vivo della tabella 3 deve essere moltiplicato una prima volta per un coefficiente relativo all’Uso/destinazione delle riproduzioni (tab. 4) e quindi va ulteriormente moltiplicato per un secondo coefficiente che riguarda la Quantità/Tiratura delle riproduzioni (tab. 5).

Salta all’occhio la tabella 3, che senza alcuna giustificazione comprende tra le riproduzioni a scopo di lucro anche Editoria e riviste scientifiche di settore in canali commerciali online/cartacea e Pubblicazioni online (senza ulteriori specificazioni). Se ne ricava che le uniche esenzioni previste sono per le foto che non si pubblicano. Nel caso invece di pubblicazioni scientifiche, sono esentate solo quelle con una tiratura inferiore alle 300 copie: praticamente pubblicazioni “carbonare” per pochi intimi sulle quali certo non si può costruire una carriera scientifica. Al confronto il precedente DM 8 aprile 1994, di trent’anni fa, appare come un provvedimento futuribile e visionario in quanto stabiliva l’esenzione dal pagamento dei diritti per “libri con tiratura inferiore alle 2.000 copie e con prezzo di copertina inferiore a 150.000 lire e periodici di natura scientifica”.

Clamorosa è l’assenza di qualsiasi accenno all’Open Access. Come è noto le ricerche finanziate sulla base di fondi nazionali o europei (PRIN, ERC etc.) devono essere obbligatoriamente pubblicate secondo questa modalità, in quanto i risultati di una ricerca realizzata a spese dei cittadini non possono essere pagati due volte dai fruitori: la prima come cittadini contribuenti, la seconda come studiosi che hanno bisogno delle pubblicazioni per la loro ricerca. Le linee guida dell’Istituto per la Digitalizzazione dedicavano l’intero capitolo 4 al tema. Al contrario nel nuovo provvedimento non solo l’Open Access non è ricordato, ma è tacitamente classificato tra le attività a scopo di lucro, in flagrante violazione dello stesso Codice dei Beni Culturali, che liberalizza le riproduzioni dei beni culturali pubblici introducendo il principio della libera “divulgazione con qualsiasi mezzo” delle loro immagini, purché svolta senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale (art. 108, comma 3-bis). Si tratta dunque chiaramente di un provvedimento illegittimo, che contraddice platealmente il Codice del quale dovrebbe invece costituire applicazione.

Se scendiamo più nel dettaglio dell’analisi troviamo che alcune norme appaiono di sicura inapplicabilità e che rivelano scarsa conoscenza dell’editoria contemporanea e di quella accademica in particolare. L’Open Access, infatti, viene fatto rientrare tra le Pubblicazioni online della tabella 3 alle quali si deve ritenere che vada applicata una ulteriore disposizione che prevede che “in caso di e-book, la nozione di ‘tiratura’ si intende quale ‘numero di download stimati’”. Inoltre “qualora il numero di download effettivo superi quello stimato, il concessionario informa tempestivamente il concedente per consentire a quest’ultimo di determinare un corrispettivo integrativo.” Dunque, se un autore pubblica su una rivista scientifica di larga diffusione internazionale viene penalizzato e in seguito dovrà monitorare i download del suo articolo (non si sa bene come, visto che non è amministratore del sito web della rivista) per pagare il sovrapprezzo se per caso il successo dell’articolo fosse superiore alle aspettative. E questo in teoria dovrebbe essere un impegno che dura tutta la vita perché, a differenza dei contributi a stampa, l’articolo non ha un “ciclo vitale” legato all’esaurimento della tiratura, ma resta a disposizione on-line per sempre – almeno in teoria. Inoltre – si perdoni la domanda ingenua – su quali basi gli occhiuti ispettori ministeriali potrebbero bussare alla sede di una prestigiosa rivista internazionale (facciamo l’esempio di Lancet) per esigere di contare i download di un articolo “sospetto” di aver sforato il numero di download stimati? Tacciamo sull’inadeguatezza del linguaggio: chiamare e-book un articolo scientifico non è la definizione più calzante, quanto al download esistono anche riviste che si leggono on-line, senza che sia possibile o necessario scaricare l’articolo sul proprio computer.

L’Open Access, però, è solo il caso più eclatante: come si potrebbero infatti classificare nell’editoria a fini di lucro le riviste scientifiche edite direttamente da istituti di ricerca, accademie o dipartimenti universitari, che certamente non lucrano dalla loro pubblicazione e anzi impegnano a tal fine fondi pubblici? Infine, si deve constatare come il DM non abbia presente le pubblicazioni print on demand, sempre più diffuse tra gli editori scientifici. Si pensi a titolo di esempio alle pubblicazioni di istituti di assoluto prestigio come l’Ecole Française, il Deutsches Archäologisches Institut, o a quelle delle case editrici di molte università. In questi casi la pubblicazione è normalmente consultabile in open access, ma è anche possibile acquistarne una copia cartacea stampata su richiesta. Dunque, quale dei due canali verrebbe preso in considerazione per stabilire la tariffa? Oppure si dovrebbe pagare addirittura un doppio canone?

Questo DM ha già sollevato le proteste delle Consulte di archeologia e di storia dell’arte, dell’Associazione italiana per la promozione della scienza aperta nonché le contestazioni molto precise e dettagliate dell’Associazione Italiane Biblioteche e di una lunga serie di società scientifiche che ne hanno mostrato l’inadeguatezza. Si deve auspicare che la tabella venga al più presto riformulata in maniera meglio bilanciata, semplice e immediatamente comprensibile, tenendo conto delle esigenze della ricerca e dell’editoria. Altrimenti si dovrebbe intendere che la ricerca scientifica non viene considerata “cultura”, visto che viene svolta da istituzioni che restano fuori dal perimetro di un Ministero della Cultura.

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