Lettera della Consulta al MIC in merito alle concessioni e indagini non invasive

Firenze, 28 aprile 2021

Gentile Direttore, architetto Galloni,

Le scrivo in qualità di presidente della Consulta universitaria di Topografia Antica e dunque a nome di tutti i colleghi docenti, ricercatori e studiosi del settore, per manifestarLe le gravi preoccupazioni della nostra Consulta in relazione alla recente circolare n. 14 contenente l’Atto di indirizzo in materia di concessioni di scavo, indagini non invasive e consegna della documentazione.

Vorrei focalizzare l’attenzione sulle innovazioni regolamentari concernenti le “indagini non invasive” al capo IV.b. Le procedure previste a tale riguardo, infatti, sono estremamente impegnative e capillari e in breve arrivano fino a decretare l’impossibilità pratica di realizzare ricerche topografiche.

Cerco di spiegare nel dettaglio i motivi della preoccupazione della nostra Consulta. Al capo IV.b la circolare dichiara che “le indagini non invasive rientrano a pieno titolo nelle ‘ricerche archeologiche e… opere dirette al ritrovamento di beni culturali’ ai sensi dell’art. 88 del D.Lgs. 42/2004”. Tale articolo, al comma 1, prevede che “le ricerche archeologiche e, in genere, le opere per il ritrovamento delle cose indicate all’articolo 10 [del Codice dei Beni Culturali] in qualunque parte del territorio nazionale sono riservate al Ministero”. Successivamente si specifica quali siano da considerare indagini non invasive e sono elencate “le ricognizioni di superficie, le indagini geofisiche e quelle realizzate tramite strumentazione, le riprese da drone, il rilievo indiretto tramite stazione totale/laser scanner”. Qui risiede il nocciolo del problema: si tratta infatti di affermazioni a nostro parere non corrette, che hanno conseguenze estremamente gravi per l’attività istituzionale che siamo tenuti a svolgere di ricerca e di didattica.

Per inquadrare correttamente la questione va considerato preliminarmente che cosa si debba intendere per “ritrovamento di beni culturali”. Innanzitutto l’articolo 10 del Codice dei Beni Culturali definisce il suo oggetto come le “cose immobili e mobili … che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”. In secondo luogo è quasi superfluo dire che una cosa può essere ritrovata se fino a quel momento era sconosciuta, occultata perché sepolta, nascosta, conservata in luogo normalmente non accessibile, ignoto o comunque non frequentato. Dunque il ritrovamento consiste – nel caso di cose mobili – nel loro recupero, con la conseguente possibilità di conservarle in luogo adatto o di esporle al pubblico, oppure – nel caso di cose immobili – nella loro identificazione e localizzazione nello spazio.

Se questa ampia e generica definizione di ritrovamento è corretta, ne deriva necessariamente che non si può applicare a buona parte delle fattispecie individuate nella circolare. Esaminiamole singolarmente:

– Ricognizioni di superficie. Si intende con questa definizione l’ispezione, mediante perlustrazione da parte di operatori qualificati, dei luoghi interessati dalla ricerca con identificazione, documentazione e posizionamento su cartografia appropriata di resti di interesse archeologico (ad esempio strutture murarie, cavità artificiali etc.) o di opere di trasformazione del territorio (tagliate stradali, opere di canalizzazione, terrapieni etc.), nonché la localizzazione su cartografia di aree da cui affiorino materiali di interesse archeologico, ugualmente registrati e documentati in modo differenziato a seconda delle loro caratteristiche. Le ricerche più avanzate contemplano l’esame dei materiali ceramici direttamente sul posto, solo alcune ricerche, soprattutto di missioni straniere, comportano la raccolta di materiale archeologico. In ogni caso, quando ciò avviene, si tratta normalmente del rinvenimento di modeste quantità di frammenti per lo più ceramici e di piccole dimensioni, di nessun valore venale e di esclusivo interesse scientifico.

– Indagini geofisiche:si tratta di una serie di indagini che comprendono, tra l’altro ma non solo, l’uso di georadar, ETR (tomografia elettrica multielettrodo), magnetometria etc., in breve quelli che vengono talvolta definiti “sondaggi indiretti”. Essi utilizzano attrezzature geofisiche che rimangono in superficie e non asportano nemmeno una particella del terreno indagato, né causano alcuna alterazione. Mediante l’analisi di onde riflesse, elettroresistività e altri parametri fisici, grazie a elaborazioni matematiche tali indagini permettono di evidenziare anomalie, che in alcuni casi possono essere interpretate come spia della presenza di strutture o cavità sotterranee di origine umana riferibili eventualmente a epoche passate. Dunque stiamo parlando di tracce non di cose. La traccia, come è noto, è un qualsiasi segno che rimandi a qualcosa d’altro (es.: il fumo che rimanda al fuoco, l’impronta che rimanda al passaggio di un animale etc.), ma non ha consistenza propria ed è soggetta a interpretazione, dunque è indizio e non prova irrefutabile della presenza di resti archeologici. Appare evidente come in nessun caso si possa parlare di ritrovamenti di cose per questa fattispecie. Ne consegue che tali indagini non possono rientrare in nessun modo tra “le ricerche archeologiche e… opere dirette al ritrovamento di beni culturali”. Inoltre non si comprende per quale motivo se un geologo utilizza queste tecnologie per una ricerca a carattere geologico non è soggetto alla normativa, se un archeologo – utilizzando le stesse tecnologie, metodiche e attrezzature sullo stesso terreno – compie ricerche archeologiche deve invece ottenere la concessione.

– Indagini realizzate tramite strumentazione. Questa voce non può essere commentata perché la sua vaghezza è tale che può adattarsi a qualsiasi strumento incluso un metro a stecca o un paio di occhiali. Nel caso in cui debba essere invece considerata assieme alla precedente è soggetta alle stesse obiezioni.

– Riprese da drone. Sono riprese ormai molto diffuse e possono restituire sia immagini fotografiche (verticali od oblique), che riprese con tecnologie LiDAR, ma si inizia a sperimentare anche il rilevamento geofisico da drone. Tali riprese avvengono senza contatto con il terreno e seguendo le norme di sicurezza dell’ENAC. Per questa fattispecie la circolare è illegittima: le riprese da drone infatti sono assimilate – anche per quel che riguarda la normativa relativa alla sicurezza – alle riprese aeree, che sono state liberalizzate dal DPR del 29 settembre 2000, n. 367, art. 3, comma 1 e 2, che stabilisce con chiarezza che “l’effettuazione di rilevamenti e riprese aeree sul territorio nazionale e sulle acque territoriali è consentita senza preventivi atti di assenso da parte di autorità o enti pubblici”.

– Rilievo indiretto tramite stazione totale/laser scanner. Si tratta del rilevamento, in genere di tipo architettonico, delle strutture, delle superfici e delle volumetrie di immobili senza necessità di contatto con il bene indagato. Ci si potrebbe chiedere innanzitutto per quale motivo un rilievo indiretto (che per definizione non tocca il monumento) necessiti di concessione e un rilievo diretto tradizionale (che impone spesso al rilevatore di arrampicarsi sul monumento con tutti i rischi connessi) invece non ne abbia bisogno. In ogni caso in nessun modo si può considerare il rilevamento come un’opera “diretta al ritrovamento di beni culturali”. Nessuno che rilevasse il Colosseo con il laser scanner potrebbe sostenere di averlo “ritrovato”. In altre parole la circolare sembra confondere la ricerca di un bene con la ricerca su un bene, distinzione fondamentale.

In breve, tutte queste ricerche si caratterizzano per il fatto che, a differenza dello scavo archeologico, non necessitano di occupazione del suolo, non asportano terreno né (con la parziale possibile eccezione della ricognizione) prelevano materiali archeologici, non modificano in alcun modo lo stato del terreno o dei monumenti. Dunque è ben difficile parlare di ritrovamento nel senso sopra definito per i risultati di queste ricerche, sempre con la parziale possibile eccezione della ricognizione.

Sulla base di questa impostazione si arriva dove nessuna circolare precedente si era spinta: si equiparano cioè in tutto e per tutto queste attività allo scavo archeologico vero e proprio e si applicano ad esse tutte le norme relative. Dunque sono richiesti:

  • budget di spesa per restauro dei reperti (quali?),
  • indicazione dei fogli e delle particelle catastali nelle quali si intende effettuare le indagini, con stralcio della planimetria catastale,
  • dati identificativi dei proprietari dei terreni,
  • dichiarazione individuale debitamente sottoscritta per ciascuno dei proprietari dell’area in esame che comprende la rinuncia al premio di rinvenimento (il rinvenimento si badi al massimo di un sacchetto di cocci) con copia dei documenti di identità,
  • periodo della ricerca,
  • dichiarazione del direttore della ricerca con la rinuncia al premio di rinvenimento corredata da copia del suo documento di identità e curriculum vitae firmato,
  • elenco dettagliato dei membri dello staff di ricerca, ovviamente con dichiarazioni dei membri dello staff con ruoli di responsabilità (ancora una volta con la rinuncia al premio di rinvenimento) corredati da copia del documento di identità, indicazione della qualifica e affiliazione istituzionale di tutti i partecipanti,
  • quadro delle ricerche pregresse,
  • progetto di ricerca,
  • obbiettivi e ricadute,
  • bibliografia e documentazione d’archivio,
  • programma conservativo dei reperti mobili (quali?),
  • piano di spesa con destinazione del 15 % del budget per il restauro dei reperti (ma normalmente questi rilievi e ricognizioni si fanno a costo zero con le risorse di personale e attrezzature istituzionali, dunque senza budget),
  • polizza assicurativa che può prevedere anche copia della quietanza della polizza assicurativa o documento equipollente da cui risultino le coperture assicurative e i relativi massimali (assicurazione da quali rischi non è chiaro, visto che non sono previste operazioni più complicate e rischiose di una camminata in campagna, e nemmeno a quale titolo venga richiesta nel caso in cui le indagini si svolgano in terreni al di fuori di aree o parchi archeologici sotto la diretta responsabilità del MiBAC). 

Pare evidente che la circolare non abbia considerato in maniera sufficiente le fattispecie normate e soprattutto non abbia soppesato a fondo le ricadute delle norme sull’attività pratica. In ogni caso l’effetto è quello di rendere impossibile la realizzazione di qualsiasi progetto di ricognizione serio. Prendiamo un esempio classico degli studi di topografia: la Carta Archeologica d’Italia che si pubblica nella serie della Forma Italiae o nelle serie editoriali ad essa apparentate. Qui l’unità cartografica di riferimento è la tavoletta IGM 1:25.000: ogni Forma Italiae ne comprende almeno una coprendo quindi una superficie di circa 100 chilometri quadrati. Se stimiamo l’estensione media di una proprietà sui 10 ettari, avremmo 1000 proprietà comprese nell’area di indagine. Ovviamente, in caso di frammentazione maggiore degli appezzamenti, potremmo facilmente moltiplicare per tre o quattro queste cifre. È facile immaginare a questo punto che cosa significherebbe anche solo raccogliere i dati anagrafici, i documenti, gli stralci catastali e le dichiarazioni dei singoli proprietari dei terreni. Per tutte le dichiarazioni e i moduli richiesti si dovrebbero compilare migliaia di pagine e impiegare anni o un esercito di persone, senza contare che difficilmente i proprietari acconsentirebbero a firmare una dichiarazione che apparirebbe loro bizzarra, dovendo inoltre consegnare a uno sconosciuto copia del documento di identità, cosa di cui possono essere ragionevolmente gelosi.

A questo riguardo va sottolineato che, benché sia comprensibile che il Ministero si preoccupi dei premi di rinvenimento, innanzitutto nelle indagini non invasive non si dà il caso e in secondo luogo – anche nel caso di scavi veri e propri – basterebbe stabilire che i premi possano essere richiesti solo in caso di rinvenimento fortuito, secondo lo spirito della norma, escludendo cioè le ricerche programmate.

La circolare probabilmente nasce considerando le grandi campagne di ricognizione programmate, ma non considera che moltissime ricognizioni sono invece realizzate da uno o pochi ricercatori che conducono sopralluoghi iterandoli durante tutto l’anno secondo le diverse condizioni del terreno, così come altri studiosi frequentano le biblioteche o come gli storici dell’arte frequentano i musei. Per alcuni, innanzitutto per i docenti di Topografia Antica (inquadrati nel Settore Scientifico Disciplinare L-ANT/09), si tratta di compiti strettamente istituzionali. Tali docenti devono fare ricerche che comportano necessariamente questo tipo di ricognizioni o di rilevamento (mediante drone, laser scanner, georadar etc.) e devono portare sul territorio gli studenti in quanto si tratta di parte integrante dei programmi di studio, sulla base della declaratoria della disciplina, secondo moduli di insegnamento, tirocini e laboratori sul campo, tutte attività previste esplicitamente negli ordinamenti e regolamenti didattici dei corsi di laurea, che rientrano nella programmazione pluriennale richiesta da una rigorosa normativa universitaria. Di fatto la circolare impedisce al docente di fare quello per cui è stato assunto. Sarebbe come se, ogni volta che un filologo va in biblioteca, uno storico dell’arte visita una pinacoteca, un chimico si reca in laboratorio, dovesse compilare una domanda di decine di pagine corredata da dichiarazioni e documenti allegati. Si tratta di pratica quotidiana istituzionale, che non può e non deve essere ostacolata, ma anzi che va favorita nello spirito di “leale collaborazione”, che deve costituire la regola tra le varie articolazioni dello stato e che permette un migliore controllo del territorio e una più efficace tutela del patrimonio archeologico, dunque nell’interesse del MiBAC. Non si trascuri il fatto fondamentale che in molti casi le ricognizioni vengono realizzate da singoli studenti per la loro tesi di laurea, dagli specializzandi (futuri funzionari di soprintendenza) per la loro tesi di specializzazione, o da dottorandi per la loro dissertazione. È ovviamente impossibile per uno studente sobbarcarsi a questa trafila straordinariamente onerosa e perfino paralizzante, né si può attribuire il compito al docente relatore della tesi, che può doverne seguire anche parecchie in contemporanea in aggiunta al carico – già eccessivo – che gli deriva dalle numerose altre incombenze istituzionali.

In conclusione sembra utile richiamare alcuni principi che nel dettaglio della normativa rischiano di passare in secondo piano, mentre sono alla base di ogni considerazione. Innanzitutto la ricerca e la didattica sono qualcosa di pubblico e hanno rilevanza costituzionale, dunque è cosa assai delicata porre vincoli in tale ambito. Inoltre una normativa così dettagliata, proprio a causa del suo estremo dettaglio, darà inevitabilmente origine a interminabili discussioni per la sua interpretazione e applicazione, quando sarebbe più efficace limitarsi a stabilire principi generali chiari ed essenziali.

Posso assicurarLe che sia io che i membri della giunta della nostra Consulta saremmo felici di poterLa incontrare per discutere le questioni che si pongono e per trovare insieme, in spirito di dialogo costruttivo e di sostegno all’attività di tutela del MiBAC, il modo di contemperare le esigenze della tutela con quelle della ricerca e della didattica, tutte istanze degne della massima attenzione ed essenziali per il bene comune. Pronti ad approfondire il discorso appena possibile, ci permettiamo nel frattempo di suggerire che la normativa acquisterebbe incisività e facilità di applicazione se potesse essere sintetizzata in pochi punti essenziali.

Il tema era stato già discusso nel 2017 con questa Direzione Generale e si potrebbe ripartire da quanto concordato durante tali incontri e cioè pensare nel caso di singole campagne a un’autorizzazione, in forma semplificata, come già avveniva in precedenza. Nel caso invece di ricerche pluriennali come quelle delle università nell’ambito delle attività istituzionali potrebbero essere redatti specifici accordi quadro (e protocolli applicativi) con la Direzione Generale, integrati nei programmi generali di tutela e valorizzazione del MiBAC. I progetti di ricognizione e le prospezioni geognostiche o con impiego di droni, di documentazione grafica di edifici o complessi monumentali, che non comportino movimento di terra o asportazione di materiale archeologico, sarebbero oggetto di specifica comunicazione preventiva alla Direzione Generale e alla Soprintendenza o Parco competente. I dati essenziali e le geometrie dei siti individuati sarebbero comunicati al termine delle fasi di attività sul campo alla Direzione Generale e alla Soprintendenza o Parco competente, nei formati idonei per essere utilizzati per le necessarie azioni di tutela. Una tale stretta collaborazione ci sembra del più alto interesse anche in vista dell’impatto che nell’immediato futuro i finanziamenti del Recovery plan potranno avere sulle grandi opere infrastrutturali e di conseguenza sul territorio, quando sarà necessario coordinare gli sforzi in vista della migliore opera di tutela senza ritardare la realizzazione delle opere necessarie.

La ringrazio per l’attenzione

Prof. Paolo Liverani

Presidente della Consulta Universitaria per la Topografia Antica

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